L’espressione vaga, sorridente e sdegnosa, le labbra serrate in un accenno di broncio, con la punta dell’ombrellino, estrema antenna della sua vita misteriosa, la duchessa disegnava dei cerchi sul tappeto, poi – con l’attenzione noncurante che, per cominciare, elimina ogni punto di contatto fra l’oggetto che si osserva e l’osservatore – fissava a turno ciascuno di noi, e ispezionava divani e poltrone con uno sguardo addolcito, allora, dalla simpatia umana che suscita la presenza, per quanto insignificante, insignificante, d’una cosa conosciuta, d’una cosa che è quasi una persona; quei mobili non erano come noi, appartenevano vagamente al suo mondo, si ricollegavano alla vita di sua zia; infine, ricondotto dalla poltrona di Beauvais alla persona che l’occupava, lo sguardo tornava ad esprimere la perspicacia di prima, e la stessa disapprovazione che il rispetto di Madame de Guermantes per sua zia le avrebbe impedito di manifestare ma che, insomma, avrebbe provata, se sulle poltrone, invece della nostra presenza, avesse constatato quella d’una macchia d’unto o d’uno strato di polvere.
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