Vent’anni fa, si vedeva ancora all’angolo sudest di place de la Bastille, vicino alla darsena del canale scavata nell’antico fossato della prigione-fortezza, un bizzarro monumento, ormai scomparso dalla memoria dei parigini e che meritava di lasciarvi qualche traccia, perché era un’idea del “membro dell’Istituto, generale in capo dell’armata d’Egitto”. Diciamo monumento, benché non fosse che un modello; ma pur tale, quel prodigioso abbozzo, cadavere grandioso d’una idea di Napoleone che due o tre ventate successive avevano spazzato via e gettato sempre più lontano da noi, era diventato storico assumendo qualcosa di definitivo contrastante con il suo aspetto provvisorio. Era un elefante alto quaranta piedi, costruito in legno e muratura, che portava sulla schiena la sua torre simile a una casa, un tempo tinta in verde da un verniciatore qualsiasi, adesso annerita dal cielo, dalla pioggia e dal maltempo. In quest’angolo solitario e scoperto della piazza, la larga fronte del colosso, la proboscide, le zanne, la torre, l’enorme groppone, i quattro piedi simili a colonne formavano di notte sotto le stelle una sagoma straordinaria e terribile. Non se ne capiva il significato: era una specie di simbolo della forza popolare, era cupa, misteriosa, immensa, un qualche fantasma possente, visibile, ritto accanto all’indivisibile spettro della Bastille.
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