RECENSIONE DI SIMONETTA SCIANDIVASCI
Dolores Prato: la romanziera dell’abbandono
Ripudiata dai genitori, accolta da uno zio prete e allevata dalle suore. Esordì novantenne con “Giù la piazza non c’è nessuno” Scriveva agli editori: guardate che sono
Le cose di cui Dolores Prato è sempre stata certa erano poche, forti e molto complicate. Era certa di saper scrivere, di essere una scrittrice, di quanta fatica e grazia servissero per far coincidere le due cose. Più di tutto, però, era certa, avendone avuto le prove per tutta la vita, di essere destinata all’abbandono. Sta in questa consapevolezza la ragione profonda per la quale mandava lettere tanto accorate e buffe, vispe, tragicomiche, a editori, giornalisti, direttori, scrittori, organizzatori di premi, e chiunque potesse darle una mano a pubblicare, scrivere, essere vista e letta, che per lei significava essere accettata. La prego, mi veda. La prego, mi legga. La prego, si ricordi di me. «Sono quell’essere ridicolo che vinse l’ultimo premio Stradanova. Ridicoli, chi più chi meno, agli occhi degli altri lo siamo tutti, ma in quell’epoca, sconvolta da un dolore pazzesco, io lo ero in maniera totale», scrive ad Aldo Palazzeschi nel 1972, quando gli manda Scottature, il suo secondo libro, il più breve (meno di 100 pagine), l’unico non incompiuto, in cui racconta l’inizio dell’età adulta, il momento in cui, dal convento in cui è stata allevata, comincia ad affacciarsi fuori: scopre il mare e l’amicizia, riceve una proposta di matrimonio (per interposta persona) e la rifiuta (sebbene le consentirebbe di andare a vivere in America), scopre che sua madre è morta, scopre di avere una sorella, la cerca, la trova e poco dopo averla conosciuta, smette di chiamarla sorella: per lei diventa “la figlia di mia madre”. Le scottature sono i segni che lascia l’incontro con il mondo fuori dal convento: è un nome deciso dalle suore per incentivare le ragazze a restare dentro, dove non ci si brucia, e la vita non è pericolo ma mistero. Prato pubblica questo libro a 75 anni. E, incontinente com’è, fluviale nel manifestarsi e proporsi, lo manda a Palazzeschi insieme a una rosa di peltro e a quella lettera. Quodlibet, che da anni ripubblica i libri di Prato, e anche i suoi frammenti (un’infinità: lei scriveva ovunque, sempre), ha inserito quella lettera, insieme a diverse altre, nell’ultima edizione di Scottature, in libreria dal 7 febbraio. E in quelle lettere c’è, di Prato, il dramma centrale della sua vita: proporsi, presentarsi, spiegare quello che sapeva fare, dirlo con allerta affinché non venisse sottovalutato (e non verrà mai sottovalutato, ma accadrà qualcosa di peggiore: la letteratura di Prato verrà riconosciuta e, però, sempre tralasciata), affinché venisse visto. «Io sento i luoghi più della persona umana», scrive in una lettera di presentazione per un annuario, nel 1960. Ed è vero: Dolores Prato ha scritto tutta la vita di strade, città, scale, borghi, case, arredi, perché delle persone le importavano le impronte, i solchi, l’esterno e non l’interno, quello che si vede e non si guarda, quello che s’avverte e non s’indaga. Perché le persone la abbandonavano.